Via Firenze
di Marco Celati - martedì 12 agosto 2025 ore 08:00

Andrea, mio padre Domingo
Mio padre si chiama Domingo Montoya. Sì, Montoya come ne “La Storia Fantastica”. È un patito di film. Ricordo con estremo affetto e pure con una certa nostalgia il modo in cui passavamo il sabato sera e la domenica, quando ero piccolo: il babbo accompagnava me e mio fratello a scegliere una videocassetta per il sabato sera. Presumo mi siano stati trasmessi da lui l’amore per il cinema o la fuga nei film. Era un rito che si ripeteva ogni settimana. Scaffali stracolmi di Vhs. Passavamo un’intera ora a guardarle. C’erano le novità, la sezione degli horror, i film d’avventura, le commedie e i cartoni animati. Quelli erano subito dopo l’ingresso, a sinistra. Noi eravamo ormai grandi per i cartoni, avendo tredici anni, e l’angolo era abbastanza in disparte rispetto al resto del negozio e non ci lasciavamo tentare. Non era sempre semplice trovare un titolo che andasse bene a tutti, ma alle più brutte c’era sempre la domenica pomeriggio. Non che non ci fossero film anche a casa. Anzi, in effetti non mancavano. C’erano le collezioni de L’Espresso o di Panorama e quelle cartacee di Ciak che, pur sempre, parlavano di cinema, di anteprime, di celebri attori e attrici famose. Non ho mai desiderato diventare un attore. In fondo sapevo di non riuscire a fingere troppo. Non sono mai stato molto convincente ed in più ero molto timido. Non che non ci siano attori timidi, ma a quell’età non lo sapevo. Per me Harrison Ford era Indiana Jones anche nella quotidianità.
Ricordo che l’anno prima, per i dodici anni, i lettori di cassette erano ancora troppo costosi, così il sabato noleggiavamo anche quello. Era emozionante uscire con tutto quel ben di Dio. Pesante, ingombrante, usurato. Alle volte era necessaria anche una cassetta per magnetizzare nuovamente le puntine del lettore. Inserivi questa cassetta e la mandavi veloce fino alla fine del nastro. Così la cassetta ripartiva. E che rabbia e dolore quando il film noleggiato aveva il nastro sciupato. Avevo anche paura che il gestore della videoteca non credesse alla nostra versione: “l’abbiamo trovata con il nastro danneggiato”, perché il cliente precedente non aveva segnalato l’accaduto. Me le immaginavo molto costose quelle videocassette, da dover ripagare.
La lista delle novità era proprio dopo il bancone, sulla sinistra. In genere due colonne, con i film più noleggiati ad altezza uomo. Come oggi i tortellini di Giovanni Rana alla Coop. Altezza cliente per indirizzarne la scelta. Io non ho molta voglia di confrontare tutti i prezzi quando faccio la spesa, per cui potrebbero farne a meno di questa scienza delle vendite. Dopo le “ultime uscite”, ricordo che partiva la lista dei film horror. A quell’epoca mi piacevano molto. Ricordo che Nightmare lo vidi quando era al terzo episodio. I primi due li guardai dopo. Prima la novità. Erano anche storie meno concatenate rispetto alle serie che producono oggi, quindi erano anche più semplici nella narrazione. A mio fratello piacevano di più le avventure. Anche a me, ma siccome gli horror piacevano solo a me, era un segno distintivo da lui e quindi mi piacevano ancora di più. Chi ha un fratello gemello può capire.
Prima dei tredici anni, devo ammettere che il mio film preferito fu un cartone animato: “Fantasia”. Oggi non lo ricordo nemmeno più bene, ma non importa ricordarne la trama, quanto la cosa più folle che mio padre ha fatto per me. Ero malato quando uscì nella sala di proiezioni dell’Arci Ragazzi. Mi sembra l’avessi già visto al cinema, ma ero veramente dispiaciuto di non poter riguardare la pellicola. Sarebbe passato almeno un anno prima che il film uscisse in Vhs. Forse anche di più. Ed in più ero scocciatamente malato. Poco prima di cena, il babbo suonò e si presentò a casa con il proiettore a 35 mm. e la bobina di quel film. Nonostante il disappunto di mia madre per l’ingombrante macchina e il rumoroso trambusto della pellicola che scivolava negli ingranaggi, per una sera la camera della mamma, quella più spaziosa della casa, si trasformò in un cinema. Il primo home theatre della storia. Letterale.
Così il “sabato del noleggio film” ha preceduto la mia crescita. Ho un’adolescenza intessuta dei migliori film degli anni novanta, ma più onestamente dei film più noleggiati. Quei film persi al cinema che sbancavano il botteghino, li recuperavo l’anno dopo durante un sabato. È rimasto il puro momento di un qualcosa che condividevamo io, mio fratello e mio padre e faceva dimenticare a noi, i compiti di scuola e a lui, la dolorosa separazione da nostra madre. O forse il contrario.
Oggi, la sera davanti alla tv quando sfoglio il catalogo di Netflix, passo molto tempo a guardare i titoli dei film, come da ragazzino prima di scegliere un Vhs. Ogni sera in cui non riesco a scegliere una pellicola, è come tornare a quei sabati con mio padre e mio fratello in quella videoteca. E quando mia moglie mi incalza con la comprensibile scocciatura di “ma scegline uno!”. “E se fosse già noleggiato?”, mi viene a volte da pensare.
Luca, i ricordi di Inigo Montoya
I ricordi sono come la nebbia fitta. Se ti ci addentri ti vedi i piedi e quel poco che hai intorno, ma perdi la visione d’insieme, e se guardi in lontananza c’è solo il grigio, che pare il niente, anche se sai che sotto quel grigio qualcosa ci dovrebbe essere, o meglio dovrebbe esserci stato. È un po’ come racconta il Mordiroccia de “La Storia Infinita”.
- Vicino a casa mia c’era uno splendido lago, ma poi è sparito.
- Si è prosciugato?
- No, non esiste più.
- E cosa c’è al suo posto, un buco?
- Un buco sarebbe già qualcosa… No, c’è solo il Nulla, e ogni giorno dilaga, dilaga... Devi sbrigarti, Atreyu, il Nulla è ogni giorno più forte.
Non mi ricordo se c’era un’ora precisa in cui il babbo ci veniva a prendere il sabato. Probabilmente tardo pomeriggio oppure sera. Ma la routine poi era quasi sempre la stessa. Se era presto andavamo a posare i nostri zaini e le nostre cose nel suo appartamento di via Firenze, vicino alle scuole; c’era sempre qualche vestito di ricambio da portare e un po’ di lezione in più da fare, anche se personalmente mi sbrigavo a farla prima che lui arrivasse, in modo da aver più tempo libero dopo.
Se era tardi lasciavamo la roba in macchina e andavamo in videoteca a scegliere il o i film da noleggiare. Prima in Vhs in qualche negozio specializzato di Pontedera, successivamente in Dvd a Videovip, la prima grande videoteca vicina al sottopasso della Ferrovia. Infine passavamo a prendere le pizze e le lattine di Cocacola -a quei tempi non esisteva ancora il food delivery- e la serata era pressoché organizzata.
Il divano di casa sua era il nostro vascello dei pirati, su cui salpare verso nuove avventure e nuovi mondi, diversi da quello, diversi da lì. E ci si stava in tre. Né larghi né stretti. Giusti. I cuscini erano un po’ logori, ma servivano da scudo contro i fendenti di spade -mi nombre es Ignigo Montoya, tu hai matado mio padre, preparati a morir- o per nascondere la faccia quando c’erano scene di paura, e si stava come i gatti, con un occhio aperto e uno chiuso, pronti a chiudere anche quello, o a riaprire l’altro se il film tornava “normale”.
A vedere due film si faceva tardi ed era anche quella l’ebrezza della serata. Non servivano troppe parole, bastava qualche commento, qualche nostra domanda per le parti non capite, qualche “cosa è successo?” del babbo quando si addormentava e doveva riprendere il filo della trama. Erano serate semplici, eppure erano il nostro mondo, ed erano anche uno dei motivi principali -oltre al fatto di non dover andare a scuola- per cui aspettavamo con trepidazione l’arrivo del week end.
E poi c’è un altro ricordo, stranamente nitido, che mi è balzato in testa ultimamente; il ricordo di quando, sempre piccoli, uscivamo di sera con la bella stagione e andavamo al Bar La Posta a giocare ai videogame. Prima ancora che i personal Computer invadessero le nostre case, se volevi giocare “ai gio’ini”, come si dice in vernacolo, dovevi andare al Bar. E lì trovavi uno, massimo due cabinati con le schede dei videogiochi interne. Al Bar mio padre lo conoscevano tutti; poi ci spiegò che era stato un punto di ritrovo per la sua compagnia di amici da giovane e che aveva giocato a pallone anche con la squadra del Bar.
Erano anni in cui le reti di conoscenze non erano così ampie come ai tempi dei social. Erano come piccole ragnatele i cui nodi però erano più stretti fra di loro e c’erano solo pochi collegamenti fra le varie tele. In compenso si poteva dire di conoscerne un po’ meglio gli appartenenti, perché erano reti abbastanza autosufficienti e piene di personaggi a volte interessanti, a volte utili, altre bizzarri. Erano anni in cui due adolescenti potevano entrare in una sera estiva in un Bar con il loro padre, scambiare i soldi in gettoni da duecento lire e mettersi a giocare ai giochi elettronici senza che facesse strano.
Mi ricordo in particolare un gioco che piaceva a tutti e tre, un platform a cui giocavamo a turno, che si chiamava Rastan Saga. Il nome l’ho recuperato in seguito. Il protagonista era un forzuto guerriero seminudo, stile Conan il Barbaro, ma scuro di capelli, che avanzava brandendo la sua spada e anche un’ascia, all’occorrenza -che poteva lanciare orizzontalmente e riprendere tramite una catena- facendosi largo tra nemici e mostri di fine livello, in un paesaggio fatto di montagne, colline alberate, grotte segrete e ponti pericolanti.
Mi ricordo che era un videogame avvincente e che tornavamo a giocarci spesso facendo sempre più progressi di livello in livello. Ma c’era un punto, particolarmente ostico che non riuscivamo a passare. Un salto, se non rammento male, che noi ritenevamo troppo lungo da fare. Non ci riusciva. “Morivamo sempre lì”, come si diceva in quei casi. Eppure, una sera, mio padre ci riuscì, e mi ricordo che esultammo, urlando dentro il Bar, con i pugni all’aria tutti e tre stretti attorno al cabinato. Sembra niente, ma in quel momento mio padre era il guerriero barbaro tutto muscoloso e fiero nel suo gonnellino di stracci, che mai si arrendeva di fronte alle avversità. Sembra niente, ma allora era come se avessimo sconfitto il Nulla del Mordiroccia, in sella ad un Drago alato con la faccia di cane. Come se mio padre per noi fosse stato Atreyu.
La domenica mattina però era il momento che preferivo. Mentre tutti dormivano, io, che non sono mai stato uno da “buche nel letto”, mi svegliavo presto così da avere la casa tutta per me. Mi spaparanzavo sul divano, accendevo la televisione con il volume al minimo e mi guardavo tutti i film in videocassetta delle raccolte de L’Unità o de L’Espresso. Quelle con le copertine o tutte nere o colorate per intenderci. I classici americani sulla guerra e sul dopoguerra: “Easy Rider”, “Un Mercoledì da Leoni”, “Apocalypse Now”, oppure la filmografia di Woody Allen di cui adoravo la massiccia autoironia e il non prendersi mai troppo sul serio, o i film intellettuali italiani, come quelli di Nanni Moretti che mascherava dietro una calma solo apparente la sua critica feroce del sistema, o i primi classici di fantascienza, “2001 Odissea nello Spazio”, che però mi metteva insieme paura e tristezza. E anche, sempre di Kubrik, “Arancia Meccanica”. Più tardi mi dedicai ai gangster-movie con “Gli Intoccabili”, “Il Padrino” o “C’era una volta in America”, almeno fino a quando non si svegliavano anche mio fratello e mio padre e si faceva colazione insieme.
La colazione era seguita da un altro rituale domenicale con il babbo: andare in edicola. Lui comprava i quotidiani e noi quelli che chiamavamo “i giornalini”, ovvero i fumetti. Topolino, in tenera età, per poi passare a quelli da grandi: Dylan Dog per mio fratello, Nathan Never per me. Fumetti di cui anche mio padre era stato, a suo tempo, accanito lettore e collezionista: Tex e Linus o artisti come Moebius, Crepax, Pazienza, Manara e Bilal. Poi per noi ci fu la novità dei primi manga giapponesi stampati, quelli che si leggevano alla rovescia, da sinistra a destra, Dragon Ball, Kenshiro, Slam Dunk. Il mio babbo non ha mai guadagnato molto, ma non ci ha fatto mai mancare niente, non ci ha mai fatto pesare il suo livello economico e in particolare i soldi per quei giornali e quei film erano sempre garantiti. Ai tempi noi, ingenuamente, lo davamo per scontato anche se, in realtà, non lo era così tanto.
Ho sempre considerato questa dei film, dei videogame e dei fumetti, la mia personale formazione giovanile. E oggi so che era anche quello a renderci diversi dagli altri, unici e particolari, e mi rendo conto che tutto ciò abbia dato un contributo -piccolo forse, ma fondamentale- a formare il nostro carattere, di adolescenti prima e di uomini adulti e indipendenti poi.
- Ubi bene, ibi patria… Ricordi che vuol dire? - Dovunque tu stia bene, è casa tua. Il divano davanti al televisore col Vhs, il Bar la Posta, l’Edicola e i fumetti, mio padre e mio fratello sono stati la mia casa.
Il padre, Domingo
Non so perché i miei figli, gemelli diversi, mi chiamassero entrambi Domingo Montoya. Montoya, vabbè, è ne “La Storia Fantastica”, un film del tempo. Ma Domingo non ricordo ci fosse. C’era Inigo che aveva un padre da vendicare: forse si chiamava Domingo? O forse era che loro, dopo la separazione, stavano con me la Domenica e per questo mi chiamavano così, anche se non ero da vendicare. Tutt’altro.
Il sabato sera andavamo a scegliere i film a noleggio o a passare un po’ di tempo ai primi giochi elettronici, al Bar La Posta. Loro avevano anche da studiare e fare la lezione. Andavano alle medie. L’età precisa non la ricordo, la mia memoria non è mai stata affidabile. Né la mia attenzione al tempo. I film si guardavano sul divano, in Via Firenze. La casa me la passò un amico che si era trasferito. Il proprietario applicava l’equo canone, un affitto calmierato. Un galantuomo, uno dei pochissimi all’epoca. La cena del sabato in prevalenza mi pare fosse pizza e il pranzo domenicale pollo arrosto e lasagne della rosticceria. Solo da maggiorenni mi confessarono che non gli piacevano né il pollo, né le lasagne. No, decisamente non ero un padre da vendicare, semmai di cui vendicarsi.
I soldi erano pochi, c’erano i primi bancomat, almeno per me, e prelevavo per la spesa del fine settimana. Un bel giorno però il bancomat del Credito Italiano decise che non era più il caso di farmi ancora credito e mi trattenne la carta. Non sono mai andato a ritirarla, mi vergognavo, pensavo che ci fosse stata impressa, a caratteri indelebili, la scritta: “Sei un povero!”. Non sapevo cosa fare. Mi feci prestare qualcosa che restituii non appena riscossi lo stipendio. Dopodiché ridussi al minimo i contributi previdenziali, per non costare di più, ma avere un po’ più soldi in tasca.
Pensai al presente, non al futuro, se non quello dei figli. E oggi che il futuro sta passando in fretta, capisco che tutto si sconta col tempo, ma era quello che andava fatto e lo feci. Tanto più che il futuro che è arrivato non mi piace nemmeno tanto e il presente che si vive mi fa abbastanza schifo. Ingiustizia, aggressioni e guerre in Palestina, in Ucraina e altrove, scempio del pianeta, vergogna del mondo. Non immaginazione, ma pazzia al potere. E Atreyu che è diventato di destra. Non sono questi i miei tempi, se mai lo sono stati, e mi ritrovo sempre più isolato e malandato. Sconfitto, come Domingo Montoya. Oggi i figli sono grandi, sposati, e hanno la loro vita, giustamente: mangiano quello che gli pare e i film li vedono da sé. Tanto ormai seguo poco il cinema e di film loro ne vedranno più di me.
A volte, sempre più spesso, viene voglia di mandare mezza gente a quel paese e l’altra metà affanculo. Ma le lettere dei figli hanno ricordato un altro me che era andato perso, smarrito nella memoria e nel tempo. Non una storia fantastica, tantomeno infinita, ma forse bella. E questo è stato: le persone, le cose, gli affetti, l’amore. È per questo la vita.
Marco Celati & Sons
Pontedera, Luglio 2025
___________________
P.S. di Luca. Il dialogo riportato, contenente la massima latina, “Ubi bene, ibi patria”, proviene dal film “Tolkien”, biopic del 2019 sulla vita del famoso scrittore. La citazione, attribuita al filosofoErasmoda Rotterdam, condensauna frase di Cicerone, “patria est ubicumque est bene”, e gli è stato associato un significato abbastanza cinico. Laddove tu riesca a fare i tuoi interessi, lì c’è la tua patria. “Ubi” in latino è un avverbio di luogo tradotto generalmente come “Dove”. Ma ogni traduzione da una lingua morta non può che essere soggetta ad interpretazione, anche perché non c’è nessun latino vivo che possa alzarsi e contraddirti. Secondo me, infatti, questa frase ha anche un’accezione fortemente romantica e il suo senso può valere anche a livello temporale. Quando, ogni volta che tu stia bene, lì trovi la tua casa.
«Hola. Mi nombre es Inigo Montoya. Tu hai ucciso mi padre. Preparate a morir!» Dal film “La Storia Fantastica”, Rob Reiner, USA 1987. Come si capisce dai titoli, l’ultimo racconto è mio, i primi due dei miei figli.
Marco Celati